30/11/2018
Roma, Accademia Nazionale dei Lincei

Intervento del Presidente della Camera dei deputati alla conferenza 'A dieci anni dai lavori della commissione Rodotà: quale futuro per i beni pubblici?'

Quella dei beni comuni è una questione che sento molto, perché in qualche modo è sempre stata al centro del mio percorso di partecipazione.

Credo che sia molto importante rilanciare il dibattito su questo tema, a maggior ragione a dieci anni dalla fine dei lavori della Commissione Rodotà.

Oggi come allora dobbiamo comprendere prima di tutto perché, a un certo punto, si è iniziato a parlare di "beni comuni", differenziandoli dai "beni pubblici", e della necessità di introdurre una nuova categoria giuridica. Significa in altri termini comprendere in che contesto è nata quellaCommissione presieduta da uno straordinario studioso e uomo delle istituzioni come il professore Stefano Rodotà.

La Commissione nasceva da una constatazione: il regime dei beni pubblici, in particolare quello dei beni demaniali, non sembrava (e non sembra) più in grado di tutelarne fino in fondo il senso e la finalità stessa. Di qui la proposta di ideare una categoria giuridica nuova, quella cioè dei beni comuni.

C'è da dire che in parallelointorno ai "beni comuni" si svilupparono riflessioni non soltanto da parte degli addetti ai lavori, ma anche da parte della società civile, che ha contribuito ad accendere i riflettori su tutta una serie di questioni: penso alla tutela del territorio, all'acqua pubblica.

Quei movimenti, quei comitati di cittadini sono stati molto significativi sul piano della partecipazione e della costruzione di un dibattito pubblico e sono nati - diciamolo senza ipocrisie- anche da un elemento di sfiducia nella capacità dello Stato e degli amministratori pubblici di tutelare alcuni beni nell'esclusivo interesse generale; sono nati da una crisi di ascolto, di dialogo, di comprensione su questo terreno fra lo Stato "apparato" e lo Stato "comunità".

Il "bene comune" non è solo un bene inalienabile, ma si distingue dal bene demaniale in quanto è finalizzato all'esercizio di diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, nel rispetto del principio della salvaguardia dei diritti delle generazioni future.

Il concetto di bene comune, in altri termini, attua fino in fondo l'articolo 42 della Costituzione che, nel riconoscere che la proprietà è pubblica o privata, ne demanda alla legge non solo i modi di acquisto e godimento ma anche i limiti "allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti".

Si tratta, in alcuni casi, di beni che soffrono di una situazione altamente critica, per problemi di scarsità e di depauperamento, e che quindi necessitano di una particolare garanzia giuridica, differenziata caso per caso, a seconda del bene.

Parlare di beni comuni - di una categoria giuridica autonoma - è anche un salto di paradigma così grande da sfidare concetti cardine del diritto civile classico e della statualitàcontemporanea.

Primo, il bene comune sfida il concetto di proprietà pubblica per guardare alla funzione (costituzionale) di un bene, non solo nel presente ma anche nel futuro.

Secondo, il bene comune sfida il modello stesso di gestione delle risorse pubbliche. Perché nel momento in cui la sua titolarità non è più in capo a un ente pubblico, ma diventa "diffusa", il bene comune evoca processi partecipativi e inclusivi delle comunità nella gestione di quel bene; mette in discussione lo schema classico, amministrativo, di gestione e di presa delle decisioni su un determinato bene pubblico.

In poche parole la nuova categoria giuridica dei beni comuni trascina con sé una evoluzione dell'idea stessa di democrazia e di gestione di un territorio e delle sue risorse che valorizza il momento della partecipazione.

Questo però non significa propugnare un modello di democrazia "in contrapposizione" a quello delineato dalla Costituzione, come qualcuno criticamente ha sostenuto. Al contrario, il modello dei beni comuni integra il dettato costituzionale; riannoda il filo spezzato fra legge - codice civile - e diritti fondamentali; rinsalda il legame tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa; nobilita e restituisce sostanza al concetto di "pubblico": non è vero che lo mortifica, non può essere così.

Allo stesso tempo però non possiamo nasconderci le tante e complesse implicazioni che possono derivare dall'introduzione di questa nuova categoria, né possiamo ignorare le richieste di concretezza e di precisione delle soluzioni giuridiche avanzate dagli "scettici" dei beni comuni.

Alcuni esempi.

Prima di tutto, cosa significa bene comune. Si può stilare un elenco chiuso di beni comuni? Nel momento in cui diciamo che deve essere comune un bene diretto a soddisfare bisogni e diritti fondamentali, non rischiamo di creare un "calderone" in cui tutto è comune e niente è comune? La Commissione Rodotà, con grande prudenza e lungimiranza, identificava un nucleo espressamente non esaustivo di beni comuni. Li voglio ricordare:

"le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l'aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; le altre zone paesaggistiche tutelate; i beni archeologici, culturali e ambientali".

Dunque un nucleo di beni comuni tendenzialmente ritagliato sulle risorse ambientali; ma se comune è il bene funzionale al godimento di diritti fondamentali, c'è chi potrebbe sostenere che bene comune è anche un ospedale o una scuola, inclusi invece dalla Commissione Rodotà nell'elenco dei beni pubblici sociali.

La Commissione, infatti, innovò il quadro civilistico non solo includendo nei beni pubblici anche cose immateriali come lo spettro delle frequenze o le reti di pubblico servizio, ma anche sostituendo il regime della demanialità e della patrimonialità con tre categorie di beni: i beni ad appartenenza pubblica necessaria, i beni pubblici sociali - fra cui rientravano, appunto, anche gli ospedali e le scuole - i beni pubblici fruttiferi, ciascuno dei quali caratterizzato da uno specifico regime giuridico.

Altro nodo problematico. Cosa significa, concretamente, titolarità diffusa? Prendiamo un ghiacciaio. È titolarità diffusa della comunità locale di prossimità, del comune, della regione, di tutti gli italiani, o è tale da attraversare, trascendere, qualsiasi confine? La domanda non è retorica perché come sappiamo gli studiosi hanno affrontato il tema dell'esistenza di beni comuni all'intera umanità, come i fondali marini, la biodiversità, gli oceani, le zone polari artiche o antartiche.

E questo ci porta a un terzo nodo, indissolubilmente legato al precedente, quello che forse più cerca di mettere in crisi la teoria dei beni comuni. Chi gestisce, concretamente, il bene a titolarità diffusa? A quale livello si svolgono i processi partecipativi sulla gestione di quel bene? È compito della comunità locale o di più comunità locali che dovrebbero - e come - raccordarsi fra loro?

E ancora, che succede se nel processo partecipativo di gestione si replicano forme di esclusione nella fruizione o nell'accessibilità a quel bene? Come si previene, concretamente, il rischio di quei fenomeni di "neo-comunitarismo" che lo stesso Rodotà paventava quando sosteneva, per rifuggire da impostazioni millenaristiche e primitive, che "lo spazio dei beni comuni" è costruito appunto attorno al concetto di "comune", non di "comunità".

Allo stesso tempo, però, è innegabile che vi siano dei beni comuni che è logico e preferibile siano gestiti da comunità circoscritte, e quindi con una "esclusività di fatto", rispetto ad altri che invece richiederebbero una gestione più ampia. A questo proposito sono di straordinario interesse gli studi delle realtà concrete, virtuose, di gestione dal basso delle risorse comuni, svolti da Elinor Ostrom, insignita del premio Nobel per l'economia nel 2009, tre anni prima della sua scomparsa.

Ecco, questi sono soltanto alcuni dei nodi complessi ma al tempo stesso così affascinanti che siamo chiamati ad affrontare nuovamente oggi, con l'auspicio che il dibattito sui beni comuni riprenda fiato e vigore.

Le conclusioni della Commissione Rodotà sono state trasfuse in proposte di legge presentate nelle due legislature precedenti ma che non hanno tuttavia avuto seguito.

Sono state però sempre un punto di riferimento e un supporto significativo alle argomentazioni di quei movimenti, associazioni, enti locali, cittadini che hanno animato in questi anni, in vari ambiti, la battaglia per il riconoscimento e la tutela dei beni comuni.

"Battaglia" democratica di cui è certamente esito il successo del referendum del giugno 2011 sull'acqua pubblica.

Credo che sia giunto ora il momento per riportare all'attenzione del Parlamento la necessità di un dibattito sullo statuto dei beni comuni e sulla valorizzazione e la tutela dei beni pubblici da parte delle amministrazioni pubbliche.

Ciò è quanto mai importante non soltanto per dare piena attuazione ai principi costituzionali e per dare ai cittadini il senso dell'attenzione delle Istituzioni verso le loro istanze; ma è anche un modo per allontanare la tentazione di utilizzare i beni collettivi o pubblici per "fare cassa", attraverso la loro alienazione o l'affidamento in gestione a privati, senza garanzie per la collettività, a fronte dei vincoli di finanza pubblica. È un metodo cui purtroppo si è fatto ricorso in passato nel nostro Paese - come denunciava proprio la Commissione Rodotà - e che in anni recenti ha portato ad ampie dismissioni in altri Stati dell'Unione europea: penso alla Grecia, costretta ad alienare beni comuni per risalire dal baratro in cui era sprofondata.

Spero davvero che il convegno di oggi possa essere come una ripartenza, come un momento di rilancio del dibattito sui beni comuni, perché questo significa parlare anche di democrazia e dell'idea di democrazia che vogliamo coltivare.

Vi ringrazio.