20/11/2019
Montecitorio, Sala del Mappamondo

Partecipazione al convegno ‘La politica estera italiana dopo la Guerra Fredda. Bilancio e prospettive’

Buongiorno a tutti voi e grazie di essere qui oggi.

Considero molto importante questa giornata di studi dedicata alle scelte di politica estera del nostro Paese nello scenario che si è delineato negli ultimi trent'anni, da quello storico 9 novembre 1989.

Il Muro di Berlino non segnò soltanto la dolorosa, terribile, divisione di una città, di famiglie e affetti, ben testimoniata peraltro da una bellissima mostra fotografica ospitata presso la Biblioteca della Camera.

Ma fu anche il simbolo più forte di una precisa volontà di dividere il mondo in base alle diverse sfere di influenza, all'appartenenza ideologica. Di creare una cortina di ferro ermetica per ostacolare lo scambio tra le persone, tra le differenti culture e visioni del mondo.

Così, l'abbattimento del Muro non si tradusse soltanto nella distruzione di una barriera in senso fisico. Ma fu anche l'inizio dello sgretolamento, in senso politico, dei regimi comunisti, dell'Europa centro-orientale prima e di quello sovietico poi.

Ne conseguì il crollo dell'assetto geopolitico del nostro continente e del mondo intero. Un assetto che si era definito durante la guerra fredda. E ciò ebbe profonde conseguenze non soltanto sulle scelte di politica estera ed europea, ma comportò un fortissimo impatto sugli stessi sistemi politici nazionali.

La giornata di oggi può dunque essere l'occasione per tracciare un bilancio della politica estera del nostro Paese in questi trent'anni, nella cornice del processo di integrazione europea, anche per comprendere le prospettive che abbiamo davanti.

Perché, da un lato, non vi è dubbio che i grandissimi cambiamenti intervenuti in questo periodo non abbiano mutato i riferimenti fondamentali dell'Italia: cioè l'appartenenza all'Unione europea e all'Alleanza atlantica. Dall'altro, tali cambiamenti ci impongono di riflettere su come fare fronte a un contesto internazionale che è profondamente mutato.

Voglio partire dal modo in cui sono state colte le opportunità e gestiti i rischi posti dalla fine della guerra fredda nel ridisegnare l'Europa e le sue relazioni con i Paesi vicini.

La nascita di una Germania unita e di nuove democrazie nei Paesi ex-comunisti ha, com'è noto, condizionato fortemente il processo di integrazione europea. Favorendo cambiamenti istituzionali ambiziosi, condivisibili nel principio, ma in alcune circostanze forse affrettati. E conseguentemente con risultati a mio avviso contrastanti, su cui oggi siamo chiamati a interrogarci.

All'indomani della caduta del Muro la necessità di ancorare saldamente la Germania riunificata alla costruzione europea, indusse la Francia e il nostro Paese a chiedere ai vertici politici tedeschi una contropartita: l'impegno a procedere più speditamente verso la creazione di un'Unione economica e monetaria e a realizzare, gradualmente, un approfondimento in senso politico del processo di integrazione. Si giunse così al Trattato di Maastricht che, attraverso tappe graduali, portò all'introduzione dell'euro.

A fronte di una moneta unica, di una politica monetaria federale e di vincoli rigorosi di finanza pubblica, il nostro Paese non seppe ottenere l'impegno a una contestuale integrazione delle politiche economiche e fiscali. Si posero così i presupposti per l'evidente paradosso che attanaglia l'area euro: l'allargamento del divario tra le economie dei Paesi 'forti' - essenzialmente quelli della vecchia area del Marco tedesco e i Paesi mediterranei.

Una divergenza che è divenuta evidente con la crisi del 2008 e lo è oggi in una fase di rallentamento della crescita globale. Persino di fronte alla recessione, l'Unione ha perseguito ciecamente l'obiettivo del risanamento delle finanze pubbliche nazionali anziché sostenere misure di stimolo degli investimenti. E ha tollerato un crescente e abnorme surplus della bilancia commerciale tedesca, ottenuto in buona misura a scapito dei partner europei più deboli.

Interessi, strategie di politica economica radicalmente differenti, che nell'attuale assetto dell'Unione economica e monetaria, non trovano oggi reali possibilità di composizione, perché mancano appunto strumenti di coordinamento vincolante delle politiche economiche degli Stati membri a fronte invece di vincoli rigorosi sull'indebitamento.

Credo che dentro questa asimmetria abbiano preso vita molte delle ragioni della sfiducia dei cittadini verso l'Europa, considerata incapace di contrastare gli effetti della crisi e di rispondere alle sfide della globalizzazione, ma anche incapace di impedire che in alcuni Paesi membri si acuisse il divario tra i territori.

Un secondo ordine di considerazioni riguarda i rapporti con le nuove democrazie sorte dopo il crollo dei regimi comunisti che sono divenute membri dell'Unione europea. Questi Paesi hanno condiviso valori e principi dell'Unione da un lato, e dall'altro - anche grazie al sostegno dei fondi strutturali europei - hanno fatto registrare un notevole benché non sempre ben distribuito aumento del benessere e della qualità della vita per i propri cittadini.

Risultati certamente importanti e innegabili che l'Europa - e quindi anche l'Italia - deve rivendicare. Tuttavia, non possiamo negare che l'allargamento ad est ha registrato errori e forse accelerazioni eccessive.

Come, per esempio, la mancata riforma dei meccanismi decisionali dell'Unione. All'adesione tra il 2004 e il 2007 di dieci nuovi Paesi, con storie, culture, sistemi politici ed economici fortemente differenziati, ha fatto riscontro solo in parte la semplificazione delle regole di formazione delle decisioni delle istituzioni dell'Unione.

Su alcune questioni fondamentali per l'avanzamento della costruzione europea ci siamo nei fatti allontanati dall'idea originaria dei padri fondatori, andando al contrario a rafforzare la posizione di chi vorrebbe ridurre l'Unione europea ad una mera area di libero scambio, priva di un ruolo reale sulla scena globale, anche nelle aree vicine. Priva di voce sul rispetto dello Stato di diritto nei suoi stessi confini.

Eloquenti in questo senso sono i rischi di violazioni gravi dei principi fondamentali e dei valori dell'Unione che si registrano in Paesi come la Polonia e l'Ungheria. Quegli stessi Paesi che si sono rifiutati di applicare le decisioni che il Consiglio dell'Unione europea aveva approvato per il ricollocamento dei rifugiati approdati in Italia e in Grecia. E non per caso in alcuni di questi Paesi sono stati eretti nuovi muri che continuano a lacerare territori e popolazioni. Dimostrando che la lezione offerta dalla storia del Muro di Berlino è già stata dimenticata.

Altra considerazione attiene al fatto che l'allargamento ha spostato sempre più il centro di gravità dell'Unione verso l'Europa centrale e orientale, rendendo periferico il nostro Paese e marginali le questioni relative ai rapporti con la sponda sud del Mediterraneo. Ne vediamo oggi le conseguenze nell'assenza di un'azione decisa dell'Unione nella gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo e soprattutto nell'ordine sparso con cui i Paesi membri hanno proceduto a fronte dei focolai di conflitto in Libia e nel Medio Oriente.

L'Italia avrebbe dovuto, per i suoi interessi geostrategici e per il suo impegno tradizionale a sostegno di una maggiore integrazione politica, giocare un ruolo più deciso nella definizione della tabella di marcia dell'allargamento. Esigendo contrappesi adeguati sul piano istituzionale, finanziario e politico prima di acconsentire all'ingresso dei nuovi Paesi membri.

Sia chiaro, il bilancio delle scelte di politica estera e di quella europea dell'Italia e dell'Unione negli ultimi trent'anni resta complessivamente positivo. Basti pensare alle attuali condizioni di pace, sicurezza, benessere, tutela dei diritti fondamentali. Ma occorre un salto di qualità, dettato dalla constatazione che il quadro mondiale post guerra fredda è dominato da un instabile equilibrio multipolare, dall'emergere di nuove potenze regionali, dal moltiplicarsi delle aree di crisi e di veri e propri conflitti armati in tante parti del globo, anche a noi vicine. Il tutto inserito in una dimensione caratterizzata da un aumento in volume e in velocità dei movimenti di persone, merci e informazioni che non ha precedenti nella storia, da guerre commerciali e cibernetiche.

In un simile contesto, fare il salto di qualità significa che in determinate aree di crisi, e nella risoluzione di determinati problemi globali, sia anzitutto l'Unione europea "a fare" la politica estera, parlando con una voce sola. E ciò anche attraverso decisioni coraggiose e lungimiranti, come sarebbe quella di attribuire all'Unione come tale un seggio permanente in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite.

Sono fermamente convinto, in sostanza, che l'Unione debba riuscire a essere un attore di primo piano nello scenario globale sulla base di un'azione orientata da una chiara politica estera e di sicurezza comune.

Penso alla Libia, dove si avverte l'assenza di una posizione europea univoca capace di concorrere a una duratura pacificazione del Paese.

Non diverso è il quadro in altre regioni meno vicine, come il Sahel o il Corno d'Africa, dove le dinamiche della competizione fra potenze europee riflettono ancora un'impostazione neocolonialista. Un neocolonialismo che la fine della Guerra fredda avrebbe dovuto definitivamente cancellare come impostazione politico-economica.

Non c'è più spazio - e non c'è visione - in questo modo di intendere la nostra presenza in queste aree del mondo. La via maestra è quella della cooperazione e del multilateralismo. Che non è parola vuota, slogan, opzione ideologica: bensì potente e reale dinamica di trasformazione delle relazioni internazionali, cui l'Italia può dare un contributo significativo. Il nuovo multilateralismo presenta dinamiche che ritengo interessanti: intende affrontare quei grandi problemi di dimensione globale che coinvolgono le condizioni di vita dell'intera umanità, come le questioni ambientali, migratorie, climatiche; imprime una logica di competizione positiva fra i diversi Paesi nell'individuare le soluzioni più efficaci; e impegna gli Stati a perseguire nell'ambito delle loro politiche nazionali obiettivi e standard concordati in ambito internazionale.

Gli esempi potrebbero essere numerosi. L'Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile costituisce - da questo punto di vista - uno strumento di riferimento più ampio ed esaustivo, che per la prima volta unisce il nord e il sud del mondo verso comuni obiettivi, sottoposti a periodiche verifiche circa il loro stato di attuazione, anche attraverso il fondamentale apporto del Parlamento. La stessa logica è attiva in altri ambiti a questo connessi, come le iniziative per la lotta al cambiamento climatico. E sono molto lieto, a tale riguardo, che l'Italia abbia concluso con il Regno Unito una partnership per l'organizzazione nel 2020 degli eventi legati alla Cop26.

Questi esempi - mi avvio alla conclusione - mettono in luce un altro aspetto emergente nelle dinamiche di politica estera di questi ultimi trenta anni: il ruolo crescente svolto dai Parlamenti, che hanno messo a punto strumenti sempre più efficaci per rafforzare la propria capacità di indirizzo e controllo in quello che era un tempo dominio riservato dei governi.

I contatti diretti fra le Assemblee, nelle loro diverse articolazioni, sono ormai fondamentali nelle relazioni fra gli Stati sia in ambito regionale che globale. E in alcuni casi consentono di arrivare lì dove non arrivano i governi. È una via che sta assumendo sempre più peso, attraverso la quale la politica estera viene arricchita da un confronto tra rappresentanti dei cittadini e indirizzata a tenerne sempre più presente le concrete esigenze.

Al fondo anche delle relazioni internazionali vi sono infatti le persone, con i loro bisogni e le loro speranze. Nei prossimi anni proprio questa dimensione - quella dell'incontro fra i popoli sulla base delle relazioni commerciali, di lavoro, di studio, del turismo - rappresenterà il profilo forse più importante che la nostra politica estera sarà chiamata a sostenere e favorire. In questo campo l'Italia ha un enorme potenziale di soft power da sviluppare, se consideriamo le altissime aspettative con cui Paesi vicini e meno vicini guardano a noi come ad un esempio di riferimento in tanti campi, da quello delle capacità imprenditoriali e creative, alla cultura, all'esperienza di governo di una democrazia difficile ma vitale.

Dobbiamo guardare con fiducia a queste potenzialità per costruire il nostro ruolo in Europa e rafforzare il ruolo dell'Europa nel mondo nei prossimi anni.

Vi ringrazio.